Yoga e India


Ho sempre amato le origini indiane dello yoga e negli ultimi anni mi sono sempre di più chiesta perché. All’inizio c’è stata una spinta emotiva, perché un tempo era inevitabile viaggiare in India senza subirne il fascino esotico e spirituale, già raccontato da molti, il suo essere tutto in un mare di spaventose contraddizioni. Eppure, l’India rimane per me tuttora un luogo della mente, più che geografico.
Al di là delle divisioni tra religioni e dei rapidi cambiamenti sociali, c’è una “religiosità materiale” fatta di immagini e rituali quotidiani che si manifesta ancora oggi in India in modo pervasivo: non solo nei templi, ma nelle strade, nelle case, nelle scuole, negli uffici. L’ho sempre trovato stupefacente e così lontano dal nostro modo di vivere il sacro. Quel fermarsi davanti a un’immagine divina, posta all’angolo di una strada, e con piccoli gesti onorarla (fiori, pasta di sandalo e un mantra appena mormorato), persino sullo sfondo di rumore e sporcizia, se da un lato mi sconcerta, dall’altro ancora mi infonde un grande rispetto e mi fa ricordare, soprattutto nei momenti più duri, che “fare yoga” non è molto diverso. Perché lo yoga, con l’esercizio continuo, include la fiducia in uno spazio più ampio di possibilità per la mente e per il corpo, uno spazio a priori ignoto, e nonostante le difficoltà, i limiti e le circostanze più o meno volute con cui dobbiamo ogni giorno fare i conti. Mi sembra che la religiosità indiana abbia una caratteristica simile, di rammentarsi nella quotidianità, con una pratica tenace, incomparabile altrove, la possibilità di una realtà più ampia, sempre presente per quanto inconoscibile e misteriosa.


Gemma D’Alessandro