La sacralità del cibo

Il cibo è indubbiamente l’elemento religioso per eccellenza, religioso nel senso etimologico del termine, in quanto collega differenti ambiti e livelli dell’essere. Tre sono le fasi che ne costituiscono la vita: produzione e raccolta; preparazione; consumo.

La produzione del cibo, soprattutto quando si tratta di prodotti agricoli, include ancora oggi alcune cerimonie per la propiziazione della Terra considerata, secondo l’antica tradizione, una Dea: Bhūmi o Pṛithvī. Malgrado la crescente indifferenza nei confronti del Divino, in ambito rurale e soprattutto presso i piccoli contadini permane la coscienza della sacralità della Terra madre.  Il massiccio impiego di mano d’opera femminile nella raccolta agricola, oltre a motivazioni economiche – il salario percepito dalle donne è inferiore a quello maschile, anche se la legge recita in maniera diversa -, deriva dalla convinzione di una maggiore vicinanza delle donne alla Terra, essendo la biologia femminile scandita dai ritmi stagionali. Inoltre, secondo le convinzioni di alcuni storici, proprio alle donne sarebbe da attribuirsi l’invenzione dell’agricoltura.

Al mondo femminile compete l’accudimento della vita e, in primo luogo, la preparazione del cibo, operazione che in India è circondata da un’aura di sacralità, dato che i primi e più antichi riti in onore degli Dei erano incentrati sul sacrificio alimentare. L’offerta rituale di cibo risale al secondo millennio avanti la nostra era, come testimoniato dalla letteratura vedica, base del mondo rituale hindu, che si articola in quattro opere: il Ṛgveda, una raccolta d’inni poetici, il cui tema centrale è il sacrificio e le complesse azioni a esso connesse; il Sāmaveda, che riprende gli inni del Ṛgveda con particolari notazioni per salmodiarli; lo Yajurveda, cui si devono minuziose descrizioni delle varie operazioni sacrificali; l’Atharvaveda, una miscellanea di tematiche diverse, dalla speculazione filosofica alla magia, dalle credenze popolari alle norme di costume.

I riti, incentrati sull’offerta agli Dei di particolari alimenti cotti secondo precise regole, erano volti a propiziare la fertilità degli animali e la produttività della terra, in modo da assicurare cibo a sufficienza per gli esseri umani, ma anche a garantire ricchezza, prole, salute e fama, in un’ottica contrattuale del “do ut des, “offro per avere in cambio”.

Il Ṛgveda, la più antica delle quattro raccolte, ritiene che la vita nell’universo sia dovuta all’interazione di forze cosmiche, personificate nel corso dei secoli come divinità funzionali: in tale contesto il sacrificio costituisce una sorta di potente regia, che permette di gestirle a vantaggio dell’uomo, vincolandole alla volontà dell’officiante. Costui deve possedere precise competenze che gli permettono di farsi tramite fra le potenze celesti e le esigenze umane, competenze sempre più complesse, divenute appannaggio di un preciso gruppo sociale che le tramanda di padre in figlio, costituendo così la prima e più importante casta hindu: quella dei brāhmaṇa, brahmani o brahmini, depositari della scienza sacra.

Il teatro del rito era uno spazio sacro che gravitava attorno al palo cui era legata la vittima sacrificale, palo che simboleggiava l’axis mundi, cifra della presenza divina, ordine e misura del Tutto. Attorno al palo, per i grandi sacrifici, si erigevano tre altari di forma e destinazione differente: il gārhapatya, circolare e collocato a ovest, che costituiva il fuoco domestico; l’āhavanīya, quadrato e situato a est, che era il veicolo per le oblazioni; il dakṣiṇa, a mezzaluna e rivolto a sud, che accoglieva le offerte ai defunti o espletava funzioni protettive. Ancora oggi, a quattromila anni di distanza, i grandi rituali hindu prevedono l’accensione dei fuochi sacri.

Le offerte cucinate per gli Dei includevano originariamente anche animali, che in qualche modo alludevano alle caratteristiche della Divinità cui erano destinati: un animale fulvo per il rosso dio del fuoco Agni, un toro per il potente dio guerriero Indra e così via. La vittima era onorata e soppressa con il minor dolore possibile, quindi veniva smembrata, cotta e suddivisa: una parte per gli dei e una parte per i partecipanti al rito, che assumevano il cibo non in termini di comunione o banchetto di alleanza, ma piuttosto come mezzo per assorbire la potenza dei Numi che avevano impregnato le offerte con la loro presenza.  

Ancora oggi il rituale quotidiano di un Hindu osservante – uomo e appartenente alle prime tre caste – consiste in cinque mahāyajña, grandi sacrifici, quattro dei quali sono oblazioni di cibo: per gli dei, per gli uomini, per i Bhūta (“esseri” indistinti, che includono animali, divinità secondarie ecc.), per i Padri, mentre il quinto è la recitazione di testi vedici ed è “cibo” per l’Assoluto, il Brahman. L’offerta di cibo agli Dei avviene durante il sacrificio, per gli uomini si traduce nella presentazione di vivande all’ospite, e l’ospite per eccellenza è il brahmano. Ancora oggi la pratica di offrire cibo ai brahmani continua, sia in ambito privato – famiglie che ne invitano uno o più -, sia in ambito pubblico, ove varie organizzazioni provvedono a nutrire cospicui gruppi durante particolari festività. Per i Bhūta le offerte vengono poste in angoli della casa, soprattutto sulla soglia.

Il cibo è centrale anche nella pūjā, l’atto di adorazione della Divinità compiuto presso i templi o a casa propria, che prevede la presentazione dei cinque elementi cosmici: la terra, sotto forma di cibo; l’acqua, che talvolta può essere sostituita dal latte; il fuoco, presente nelle lampade accese; l’aria, simboleggiata dal profumo dei fiori e degli incensi; lo spazio etereo, cui allude un drappo posto sulla statua o il suono della buccina. La potenza divina davanti alla quale vengono dispiegati impregna gli elementi, per cui il cibo si fa prasāda, alimento benedetto che viene assunto dai partecipanti al rito e portato a coloro che non hanno potuto essere presenti.

I principali momenti nella vita di un Hindu non possono prescindere dalla preparazione e dalla degustazione del cibo: il matrimonio, il fondamentale rito che celebra l’ingresso dell’uomo nella comunità sociale e garantisce alla donna la possibilità di essere madre, vede all’acme della cerimonia i due sposi che a mani congiunte versano nel fuoco l’oblazione rituale. Una volta arrivati i figli, la prima assunzione di cibo solido da parte del bambino è un rito e avviene al tempio oppure si chiama a casa un officiante. Le celebrazioni per i defunti includono un banchetto offerto ai brahmani e la presentazione di particolari cibarie, sorta di gnocchi a base di farina di riso, orzo, ghī (burro chiarificato) e semi di sesamo nero, dette piṇḍa, riservate ai trapassati.

Se il cibo gioca un ruolo fondamentale nel contesto religioso, anche in ambito domestico la sua importanza non è da meno. L’opposizione fra puro e impuro, che domina la civiltà indiana e determina la gerarchia sociale, si manifesta in massimo grado nelle prescrizioni alimentari. Gli alimenti, soprattutto quelli cotti, sono uno dei principali veicoli di contaminazione e il pasto è il momento in cui l’uomo è più vulnerabile. Tutto ciò implica particolari attenzioni e numerose restrizioni in merito alla scelta degli ingredienti, alla preparazione e alla consumazione.

Per quanto riguarda gli ingredienti, aglio e cipolla sono considerati impuri e il consumo della carne è gravato da molti divieti. Tuttavia la dieta vegetariana, oggi seguita dal 30% della popolazione, non ha radici antichissime: a suggerirla ai propri discepoli fu, sul letto di morte, il saggio Bhiṣma, parente di entrambe le famiglie contendenti – i Pāṇḍava e i Kaurava –, protagoniste del grande poema epico Mahābhārata, (IV sec. a.C – IV sec. d.C.).

Dai testi vedici risulta infatti evidente il sacrificio degli animali e la consumazione della loro carne. Tuttavia l’uccisione della vacca era deprecata; marcatore di ricchezza materiale e stato sociale, forniva cinque elementi basilari: latte, burro, ghī, urina, sterco, ancora oggi utilissimi. Latte, burro e ghī, oltre ad essere indispensabili nel rituale d’offerta, sono tra gli alimenti base di quasi tutta la popolazione indiana mentre in ambito contadino lo sterco essiccato continua a essere usato come combustibile e l’urina come disinfettante.

La mucca, il cui latte scorre sempre per il vitellino, è simbolo della Madre sollecita e per estensione metafora della Natura provvida. Con il delinearsi delle prime immagini, Surabhi, la mucca sacra, alberga nel suo corpo tutte le Divinità e rappresenta la totalità dell’Essere. La tradizione di onorare le vacche è tuttora presente: durante la festività di Dīpāvalī, oggi nota come Diwali, importantissima celebrazione del trionfo della Luce che si tiene nel mese lunare di Kartika (ottobre/novembre), gli animali vengono adornati e nutriti con cibo particolare.

Le strette correlazioni che esistevano tra il sacrificio, la vacca e il brahmano fecero sì che l’animale fosse assimilato a quest’ultimo, in una sorta d’identità sacrificale. Questo spiega come mai l’uccisione della vacca sia stata vista come un crimine gravissimo: per un processo di transfer, ucciderla era come uccidere un brahmano. Da qui l’orrore per le professioni di macellaio, cuoiaio e di quanti hanno a che fare con la vacca morta. Il carattere sacro della vacca è pertanto socialmente funzionale nel quadro di puro e impuro: da viva appartiene alle caste più alte e le santifica; da morta è appannaggio dei fuoricasta e li carica di contaminazione.

Oggi la venerazione popolare per la mucca va scemando mentre purtroppo la sua immagine è strumentalizzata nell’ambito delle contese fra Hindu e appartenenti ad altre religioni: Musulmani e Cristiani. Del resto, uno dei motivi di attrito fra Hindu e Musulmani all’epoca di Gandhi era stato proprio la protezione della vacca, sostenuta dal Mahatma quale simbolo dell’atteggiamento innocente del mondo tradizionale indiano. Oggi il mite bos indicus o zebù sembra destinato all’estinzione: l’India è il quinto paese produttore e consumatore di carne bovina al mondo e sta privilegiando l’allevamento di razze estere più produttive.

Tornando agli alimenti impuri, lo sono le bevande alcoliche, benché in epoca vedica si usasse delibare in un complesso cerimoniale il soma, forse estratto dall’amanita muscaria, dalla cannabis sativa o dal sarcostemma. Durante il periodo moghul i grande imperatori – soprattutto Jahangir – fecero notevole uso di vino e altre bevande alcoliche, benché musulmani.

L’attenzione e la classificazione degli ingredienti è fondamentale nella medicina ayurvedica, secondo la quale il corpo è composto da tre costituenti – vāta, pitta, kapha,  scaturiti dalla combinazione dei cinque elementi cosmici –, il cui aumento o diminuzione porta allo squilibrio fisico e alla malattia. La scelta dell’alimento adeguato, insieme a altri accorgimenti e terapie, permette di ripristinare l’equilibrio compromesso.

La preparazione del cibo implica un’attenta cura, volta a evitare contaminazioni e l’ansia del puro, castus, si riflette particolarmente in ambito castale, dove il cibo è un marcatore fondamentale. Il cibo e soprattutto l’acqua non vengono accettati da chiunque ed elargiti senza precise regole. L’unico che può dare a tutti è il brahmano, che si trova al vertice della piramide gerarchica, ma a sua volta può ricevere solo dagli appartenenti alla sua casta. Il termine casta traduce il sanscrito varṇa, “colore”, e jāti, “nascita”. Varṇa propone un modello panindiano, che sta a monte del sistema castale e trae le sue origini dal Puruṣasukta, il 90° inno del X libro del Ṛgveda, ove un essere gigantesco – il Puruṣa appunto – è stato immolato dagli dei: dalla sua bocca si sarebbero generati i brāhmaṇa, depositari dell’autorità religiosa; dalle sue braccia i rājanya (definiti poi kṣatriya), detentori del potere politico; dalle sue cosce i vaiśya, addetti ad agricoltura, artigianato, commercio; dai suoi piedi i śūdra, il cui compito era servire le altre caste.

Varṇa è dunque una ripartizione teorica, piuttosto che non un dato reale, anche se probabilmente si ricollega alla divisione funzionale all’interno delle società nomadi, ove un gruppo gestiva il sacro e si poneva come tramite fra l’umano e il divino; un altro si faceva garante di tutte le azioni connesse con la difesa e l’offesa; il terzo assicurava alla società il sostentamento e tutti gli ambiti a esso collegati. La casta dei śūdra sarebbe cronologicamente posteriore alle altre tre e ingloberebbe le popolazioni autoctone incontrate dagli Arya durante la loro penetrazione in India e da questi sottomesse. Il fatto di essere stati gli Arya di carnagione chiara e i popoli soggiogati di carnagione scura spiegherebbe il termine varṇa, “colore”.

Ben presto le quattro caste si frazionarono e si segmentarono in sotto-caste e diramazioni territoriali, che oggi sembrano aggirarsi attorno alle tre migliaia e a queste viene appunto dato il termine di jāti nel senso di “nascita, gruppo ereditario”. Le caratteristiche che definiscono un gruppo come jāti sono il rapporto gerarchico, che stabilisce la posizione nel costrutto piramidale della società; la specializzazione in un determinato ambito lavorativo, monopolio del gruppo; le restrizioni in merito al matrimonio e all’assunzione del cibo. Il sistema castale include anche, paradossalmente, quelli che ne sono fuori: i fuori-casta, definiti incorrettamente “intoccabili” o “pariah”, nome quest’ultimo derivato da un gruppo dell’India del Sud, i PaRayar o fabbricanti di tamburi, particolarmente impuri proprio perché manipolatori della mucca morta. Oggi per i fuoricasta viene impiegata la definizione coniata da Gandhi: Harijan, “figli di Dio”.

Tornando al cibo, è dunque necessario che la preparazione e l’elargizione avvenga da parte del più puro e la non osservanza di tale regola pone fuori dal sistema. I Sikh, i “Discepoli” di Guru Nanak, riformatore religioso vissuto in quello che oggi è il Panjab tra il XV e il XVI sec., non appartengono al mondo hindu, non tanto per le loro concezioni, quanto per il rifiuto del sistema castale e delle norme alimentari ad esso connesse. Presso le grandi cucine dei  gurudvāra, i luoghi di culto sikh, il cibo è preparato da volontari di diversa estrazione e consumato insieme, ad evidente celebrazione dell’uguaglianza di tutti i discepoli.

L’importanza di chi prepara il cibo è ancora così notevole in ambito hindu, che nel caso di pranzi con partecipanti di diversa casta – ad esempio le mense aziendali – il cuoco è un brahmano. Addirittura nella modernissima Mumbay esiste un sistema di consegna che permette a chi lavora di ricevere il pranzo cucinato fresco dalle mogli o dalle donne della famiglia. Centomila pranzi al giorno vengono ritirati nei sobborghi della metropoli da efficientissimi dabbawala, fattorini “che portano le gavette”, che li prendono dalle mani della cuoca e li caricano sui treni per il centro, dove altri li recapitano al destinatario. Un’università americana che ha fatto oggetto di studio il codice d’identificazione delle gavette che usano i dabbawala, molti analfabeti, ha riscontrato un errore su sei milioni di consegne. Lunchbox, famoso film indiano del 2013 scritto e diretto da Ritesh Batra, è incentrato proprio su un simile, rarissimo sbaglio e descrive l’impegno giornaliero della protagonista nella preparazione di un complesso e raffinato pasto, di cui il marito neanche si accorge.

Ingredienti, preparazione, consumazione: l’assunzione del cibo prevede l’uso della mano destra, tre dita e il pollice, per portare il boccone alla bocca, magari servendosi di pezzi di pane o palline di riso. Rigorosamente la mano destra, non tanto per questioni di etichetta, ma in ossequio alla divisione puro/impuro, dato che la sinistra è deputata alla pulizia del corpo.

L’astensione dal cibo è una delle pratiche fondamentali nel cammino ascetico. Il digiuno purifica, insegna a procrastinare, induce a controllare i sensi e quindi le fluttuazioni mentali, quelle che lo Yoga definisce cittavṛitti, “turbini del pensiero” che impediscono la focalizzazione sul fine spirituale. La tradizione del digiuno è antichissima ed è centrale nel Jainismo, dottrina che fa capo a Vardhamāna Mahāvīra, vissuto nel VI secolo avanti l’era corrente, che divenne un Jina, “vincitore” dell’ignoranza e delle passioni: da qui il termine Jainismo. Mahāvīra fu estremamente attento nei confronti del cibo: ci si doveva astenere non solo da ogni tipo di carne, ma anche da piante la cui raccolta ne causava la morte (ad esempio carote e patate); non si doveva mangiare prima del sorgere del sole o dopo la sua discesa, per evitare di ingoiare insetti. L’impegno totale all’ahiṃsā, l’innocenza, restringeva e restringe di molto la dieta jaina. A esso si è ispirato Mohandas Karamchand Gandhi, che rafforzò la propria aderenza all’ahiṃsā tramite il digiuno, strumento che egli utilizzò in ambito politico come mezzo di purificazione personale e per indurre consapevolezza negli avversari.

Il digiuno non garantisce benefici solo a se stessi, ma anche ai propri familiari e sono soprattutto le donne che vi si sottopongono a tale scopo, come nel Karva Chauth, intrapreso dalle mogli per il benessere dei propri mariti, che prevede l’astensione totale dal cibo e dall’acqua per l’intera giornata, fino alla comparsa della luna. Il digiuno può essere praticato in un determinato giorno e dedicato a una precisa Divinità, come nel caso del digiuno del venerdì in onore della dea Saṃtoṣī. Tale Divinità, invero secondaria, assurse a grande popolarità grazie al film Jai Santoshi Maa del 1975, che ottenne un inaspettato successo di pubblico, la cui protagonista riuscì a vincere ogni avversità grazie al digiuno in onore di Saṃtoṣī Mā protratto per sedici venerdì.

La dimensione religiosa del cibo in quanto collegamento fra i vari piani dell’essere appare evidente nella questua, effettuata fin dai primordi della civiltà indiana da parte degli asceti itineranti. Questi vivevano grazie alle donazioni alimentari e la frequenza e l’entità di queste erano spesso dipendenti dalla celebrità dei questuanti. Si comprende allora come le pubbliche contese tra esponenti di diverse discipline avessero anche un aspetto pratico: chi vinceva, non solo guadagnava fama e riconoscimento, ma pure sostentamento. Nel Buddhismo Theravāda, la dottrina più vicina al messaggio originale dell’Illuminato, SiddhārthaGautama detto il Buddha, i monaci vivono grazie alle offerte dei devoti. Ma benché agli occhi occidentali la questua appaia come strumento per coltivare l’umiltà e il distacco – si deve mangiare qualsiasi cosa venga deposta nella ciotola, senza repulsione o bramosia – e sembri quindi pratica rivolta alla crescita spirituale dei monaci, nella concezione buddhista sono i laici a trarne beneficio, poiché viene loro offerta la possibilità si esercitare la virtù del dono e acquisire meriti spirituali.

Preparazione rituale, digiuno, questua utilizzano il cibo per mantenere e consolidare l’ordine all’interno delle varie discipline. C’è però anche un utilizzo trasgressivo del cibo, evidente e centrale nell’ambito del Tantrismo, insieme di concezioni e pratiche formatosi dal V sec. della nostra era, che include riti “forti”, volti a scardinare determinati schemi mentali e a fare esperire differenti stati di coscienza. Una delle correnti tantriche, la cosiddetta “via di sinistra” o vāmācāra, impiega il rituale dei pañcamakāra, ovvero dei cinque – pañca– elementi che cominciano per “emme” – makāra – e prevede la consumazione di bevande alcoliche, di carne e di pesce accanto a più tradizionali granaglie, e si conclude con il maithuna, l’unione sessuale. La strenua disciplina cui si sottopongono i seguaci del vāmācāra permette di usare elementi normalmente considerati impuri come strumenti di realizzazione spirituale, tanto che bhoga, il godimento materiale, diventa yoga, la suprema unione con il Divino.

Il cibo è dunque davvero centrale nel mondo indiano: è il regalo di Madre natura, che nell’iconografia hindu è raffigurata dalla dea Annapūrṇā, la Signora “ricca di cibo”. Ella risiede a Varanasi, centro del mondo e quindi sua sede elettiva, seduta sul trono dei leoni, animali legati alla Grande Dea in varie culture, e elargisce il cibo al suo sposo Śiva. La Dea simboleggia la funzione principale del femminile: nutrire corpo e anima, ed è emblema delle molte donne oggi impegnate in India e nel mondo per la salvaguardia della Madre terra, per una produzione più responsabile del cibo e per la sua equa ridistribuzione.

Marilia Albanese