Il 15 agosto 1947 Nehru, celebrando l’acquisita indipendenza e la nascita dell’Unione Indiana, pronunciò all’interno del suo toccante discorso una frase fatidica: “Il passato è ancora con noi”.
Oggi, a quasi sessant’anni da allora, l’affermazione del primo ministro continua ad essere valida, ancora di più se riferita al contesto antropologico, ove l’individuo indiano appare profondamente condizionato dal peso della tradizione. E’ impossibile infatti prescindere dal millenario costrutto culturale che orienta, spesso in maniera inconscia, l’esistenza di un miliardo e cento milioni di persone.
I concetti metafisici e i valori di riferimento e, soprattutto, la struttura sociale e familiare gerarchica spiegano in maniera più o meno esplicita determinati comportamenti, che tuttavia risentono di un mutato contesto storico, attualmente caratterizzato da tanti – forse troppi – elementi estranei all’essere indiano.
Dallo scontro fra il sentire interiore e le pressioni esteriori nascono i molti disagi dell’individuo, che anche in India si ritrova preda dello stress, dell’ansia, dell’alienazione e della schizofrenia con un ulteriore aggravante: la rapidità estrema del cambiamento, che ne impedisce una graduale metabolizzazione. Non ci sono precedenti di quanto l’India sta affrontando nella storia del mondo: le trasformazioni in Occidente hanno avuto tempi più lunghi e si sono confrontate con una tecnologia molto meno sofisticata e dei mezzi di comunicazione più limitati, in un contesto ove gli estremi socio-economici e la pressione demografica erano di gran lunga inferiori a quelli indiani. In poco più di mezzo secolo l’India è diventata uno stato unico, ha promosso l’industrializzazione, ha accolto il libero mercato e le sue conseguenze: la borghesia e il capitalismo. Solo la Cina sta vivendo situazioni analoghe, ma l’avere tagliato con la tradizione – processo facilitato da una diversa struttura culturale – ha creato meno disagio antropologico.
La richiesta che il moderno stato indiano avanza nei confronti dei suoi componenti è l’assunzione di responsabilità individuale e la partecipazione consapevole alla vita collettiva. Ma il singolo ha alle spalle un modello sociale e famigliare differente, antico di tre millenni almeno e profondamente radicato nell’inconscio collettivo1.
Nella visione hindu dell’essere le innegabili differenze umane trovavano riconoscimento e collocazione in un sistema gerarchico – quello della casta -, ove ad ogni livello competevano diversi impegni e funzioni. Acquisita per nascita a seguito delle azioni compiute nelle vite precedenti – il karman – e conservata per matrimonio endogamico, la casta determinava lo status sociale e la gamma di professioni esercitabili in ossequio ai dettami del puro e dell’impuro, fondamentali nel costrutto sacrale della società hindu. Ciascuno sapeva dunque quale era il suo posto all’interno della compagine sociale e che cosa ci si aspettava da lui. La professione gli veniva insegnata all’interno della famiglia, in trasmissione diretta ed emulazione degli altri, come bene di diritto ed ereditario. Oltre a ciò, l’organizzazione castale gli forniva un contenitore altamente specializzato e organizzato – le shreni, corporazioni o gilde – che lo tutelava, mettendolo al riparo dalla competitività, ma limitandone fortemente l’iniziativa personale, non decisamente scoraggiata, bensì sempre mantenuta all’interno del gruppo e, soprattutto, in linea con la tradizione. Ai canoni tradizionali nessuno sfuggiva, nemmeno – e tanto meno – gli artisti, che oggi faticano a trovare il loro cammino, ancora gravati dal sospetto e dal biasimo in merito a ciò che è innovazione e – peggio ancora – rottura 2.
La terza casta, quella dei commercianti3, proprio per l’intraprendenza che mostrava, per la mobilità che aveva, e per la connessione con i beni materiali, venne considerata dalle altre con sospetto e sufficienza, tanto che nel principale trattato di politica indiana, l’Arthaśāstra, si legge che i commercianti “sono ladri che non sono chiamati con il nome di ladri”. La permanenza inconscia di tale valutazione ha fatto sì che quando Indira Gandhi nel 1969 nazionalizzò le banche4, l’opinione pubblica accolse la cosa in maniera favorevole, in un evidente esempio di coincidenza tra la scelta politica e il sentire emotivo.
Del resto il sistema pre-economico indiano era basato sulla circolazione dei doni e radicato nella concezione dell’abbondanza illimitata della natura, madre provvida come la mucca, il cui latte sempre fluisce. Dunque non si prese in nessuna considerazione la necessità di un incremento produttivo, certi dell’inesauribile fertilità della terra che, se anche privava i suoi figli del cibo con periodici eccessi di siccità e alluvione, sempre restituiva loro i frutti del suo grembo. I ciclici ritmi di vita e di morte della natura vennero proiettati nelle divinità che ne incarnavano le funzioni, eleggendole artefici al tempo stesso della emanazione e della distruzione dell’universo.
Dunque l’economia fu economia di sostentamento, della famiglia o al massimo del villaggio, ma mai su larga scala. Fu fuori dai confini dell’India che i commercianti cercarono la loro realizzazione, spingendosi in terre lontane e lasciandoci iscrizioni osannanti la loro intraprendenza. Poco considerati all’interno dell’Hinduismo, trovarono alla fine riconoscimento nelle dottrine del Buddhismo e del Jainismo dei primi tempi, fortemente intellettuali, individualistiche e anti-castali, che attrassero a sé le caste urbane, colte, raffinate e svincolate dalle concezioni magico-religiose dei brahmani.
Il Buddha era cresciuto all’interno di comunità ove il potere era esercitato da più notabili, in un clima di confronto e apertura, e tale atteggiamento venne ereditato dalle corporazioni di mestiere cittadine, improntate alla solidarietà, all’onestà e alla frugalità, ove la proprietà privata era tutelata, lo sforzo e la responsabilità individuale incoraggiate. Ma eventi storici e culturali interruppero lo sviluppo urbano e il fiorire del commercio e l’economia tornò ad essere basata sulle antiche concezioni dello scambio e della portata limitata.
Nella famiglia si ritrova la stessa struttura gerarchica della società, che è lo specchio allargato dei legami parentali. I membri, a seconda del sesso, dell’età e dei rapporti con il capo-famiglia occupano un determinato livello che ne determina il ruolo e le funzioni, tanto che all’interno del gruppo familiare ci si apostrofa con le qualifiche di parentela e non con i nomi propri 5. In assenza del ruolo, il componente della famiglia può essere emarginato o addirittura espulso – vedi le vedove -, e comunque psicologicamente si sente svalutato, nullificato, poiché il suo valore non deriva dal suo essere individuale, bensì dalla funzione svolta.
Tradizionalmente la vita veniva suddivisa in stagioni biologiche alle quali si addicevano espressioni e compiti diversi, e se era per lo più la casta brahmanica che seguiva in toto i dettami dell’āśramavarṇa, tuttavia anche le altre caste si ispiravano a percorsi codificati.6
Dunque famiglia e società si basavano su un rigido complesso di norme – dharma – che non permetteva deroghe alle proprie leggi, tanto da rendere l’ortoprassia uno dei cardini della civiltà hindu. Vincolati alle regole sociali, gli hindu sarebbero teoricamente liberi nelle scelte spirituali: di fatto il condizionamento dell’ambiente famigliare e castale è determinante anche negli orientamenti religiosi e metafisici.
Quindi nell’inconscio collettivo dell’uomo indiano giocano un ruolo determinante la gerarchia, il ruolo, la funzione stabiliti della tradizione.
Ma oggi la società sta cambiando e alla famiglia congiunta si sostituisce sempre di più nelle città la famiglia mononucleare. Il padre deve assumersi il peso delle decisioni senza il confronto e il supporto con gli altri maschi della famiglia. Il lavoro non è più garantito per ereditarietà e non vi è più la protezione del gruppo quando si entra nell’arena lavorativa; l’assunzione di nuove professioni può portare allo scontro con la famiglia d’origine oppure, se vengono conseguiti livelli di studio più alti, insorge il desiderio di maggiore indipendenza e più alti standard di vita. Ma i modelli proposti dall’Occidente ed enfatizzati da cinema e televisione sono troppo spesso fuori della portata dell’indiano medio. Ecco allora l’ansia da prestazioni, lo scoramento, lo stress. Molti uomini hanno dovuto inoltre accettare lavori inferiori al loro status – come nel caso di brahmani e rajput 7 – e questo acuisce il disagio, a fronte anche di una nuova emergenza delle donne, chiamate nella famiglia mononucleare ad assumere ruoli di conduzione. Se da un lato ciò appare ad alcuni uomini come una minaccia alla propria autorità, dall’altro stabilisce nuove basi per i legami tra i coniugi, improntati al rispetto, alla solidarietà e all’amore.
Tuttavia, l’acquisito status sociale e professionale della madre tende a rafforzare negativamente il già forte rapporto tra lei e i figli maschi, che faticano a liberarsi dai legami materni e non riescono ad accettare di non essere più il centro dell’universo fuori dalle pareti domestiche. Da una recente indagine risulta che i maschi si sentono più dipendenti dalla famiglia e che sono le donne, le mogli, a chiedere il distacco da questa. Perché ciò avvenga in maniera meno traumatica, spesso gli uomini cercano il trasferimento per giustificare la loro dipartita. La famiglia piccola, comunque, impone l’allargamento delle relazioni fuori dalla cerchia parentale e dalla casta e questo è sicuramente un dato positivo.
Se la famiglia monunucleare induce ad assumersi maggiori responsabilità, d’altra parte non riesce a evitare e neutralizzare le tensioni fra i membri, cosa che invece avveniva nella famiglia congiunta. In essa, inoltre, i giovani potevano scegliere tra i molti componenti il modello di riferimento, cosa che viene a mancare nel nucleo ristretto, tanto che spesso le giovani generazioni proiettano le loro aspettative su persone estranee, apparentemente carismatiche o create tali dai mass media o dalla politica. La ricerca del guru, il maestro ispirato a cui affidarsi, continua ad essere una necessità: ancora una volta sono la funzione e il ruolo più che la persona in se stessa ad attrarre. Emblematico rimane il caso di Gandhi, seguito in quanto ritenuto un mahātma, una “grande anima”.
Maggiori sono le prospettive per le donne che, a seguito dello spostamento dell’età matrimoniale, sviluppano più profondi legami con la madre. La loro autostima non è minacciata all’interno della casa, anzi: continuano ad essere riconosciute come perno della famiglia, a sentirsi garanti dell’armonia fra i membri e depositarie della continuità culturale. Se poi assumono un lavoro, è sempre un avanzamento, se comparato alla loro condizione esclusivamente domestica. A riprova dell’importanza femminile basti ricordare, nel 1966, l’elezione di Indira Gandhi, quella di 95 donne nel parlamento nazionale e di 195 nelle legislature degli stati.
La quieta rivoluzione che le donne indiane stanno compiendo è una delle più grandi della storia ed è determinante per il cambiamento dell’India; fedeli al loro essere femminile, aliene dall’assumere quell’aggressività maschile che ha caratterizzato le donne dei paesi occidentali, conducono con più serenità ed equilibrio il confronto con l’altro sesso. Confronto che, però, si sta facendo oggi difficile e doloroso per la crescente violenza contro di loro, dovuta ai pesanti disagi sessuali vissuti dagli uomini indiani8, soprattutto dai giovani, sviati e eccitati da modelli occidentali e dalle trasformazioni delle coetanee, che cominciano a sfoggiare abbigliamenti e comportamenti sentiti come provocatori. Malgrado la frequentazione fra i due sessi si sia intensificata, entrambi vivono ancora un forte disagio nel rapportarsi reciprocamente.
L’educazione in questo non aiuta ancora. Il tessuto familiare in cui il bambino si muove nei primi anni dell’infanzia è notevolmente determinato dagli insegnamenti delle donne, ancora legate alla tradizione, e dall’indotto famigliare e castale. Nella scuola, laddove permane un’educazione di stampo tradizionale, con molto apprendimento a memoria e lo scoraggiamento della libera espressione e della formazione del senso critico, si creano iati pericolosi con la realtà oppure altrettanto pericolosi arroccamenti e integralismi. Se invece l’istruzione è moderna e tende a svalutare la tradizione, insorgono atteggiamenti di disprezzo e sradicamento, altrettanto deleteri in quanto cause dell’allargamento del gap tra i vari livelli della popolazione e tra l’area urbana e quella cittadina. La pedissequa e acritica accettazione – sfocianti nella venerazione e nel fanatismo – e l’opposizione violenta e trasgressiva costituiscono gli estremi del sistema educativo indiano che tenta con fatica di liberarsi da entrambi. Eppure nell’educazione risiede il potere di salvare i valori della tradizione coniugandoli con il processo di modernizzazione, che potrebbe trovare sostegno proprio in quelli, se correttamente e coraggiosamente riletti.
L’individualismo è precondizione dell’industrializzazione e del decollo economico, ma il retroterra culturale rende difficile l’affermazione del singolo chiamato all’impegno, all’autodeterminazione e alla partecipazione nella res pubblica in prima persona. Il concetto di repubblica non è estraneo solo come termine, ma anche come senso, perché tradizionalmente la politica indiana s’ispirava a ben altri modelli: mandato divino, esercizio sacrale, investitura carismatica. Oggi la struttura socio-religiosa è contestata, la politica diventa solo un fatto profano, e potere e soldi si sovrappongono a autorevolezza e saggezza. La visione ottocentesca romantica dello stato monolitico non regge più in Occidente e tanto meno in India, la cui realtà è pluralistica. Almeno cinque maggiori compagini religiose9 con i loro contenuti, l’etica di riferimento e i relativi costumi sono presenti sul suolo indiano, il che rende impossibile una mobilitazione congiunta su obiettivi generalmente riconosciuti. Il secolarismo, che pure avanza e che ha ispirato i fondatori dell’Unione Indiana, non ha ancora raggiunto la base, che invece si presta alla strumentalizzazione pseudo-religiosa, in un ambito facile al contagio emotivo.
La protezione offerta un tempo dal contesto mitico e religioso che funzionava da contenimento delle forze inconsce della psiche, oggi vacilla e al suo posto avanza la psicologia, cercando di offrire risposte in passato date dall’ambito del sacro. Nei grandi miti il continuo conflitto tra dei e demoni era in effetti lo scontro tra le forze disgreganti della mente e la vittoria finale consisteva nell’integrazione delle parti rimosse e scisse del Sé. Oggi i nuovi demoni sono più agguerriti e subdoli: si chiamano consumismo, sfruttamento, globalizzazione.
Dietro mere apparenze religiose si nascondono il castismo, il communalismo e il settarismo: lo stato si proclama laico e sopra le parti, ma poi è costretto a promulgare leggi speciali per le comunità religiose; sostiene la libertà di scelta degli individui, ma distribuisce i privilegi in merito ai gruppi10; il sistema castale è ritenuto illegale, si afferma che non esiste più, ma gli annunci matrimoniali sui principali quotidiani a tiratura nazionale evidenziano il contrario.
E’ proprio il sistema castale che torna ad essere una sorta di garanzia e protezione. Si assiste così allo sviluppo delle associazioni di casta, che si impegnano in investimenti, nella creazione di scuole, banche, ospedali, e si sostengono e informano tramite internet e giornali, strumenti moderni e potentemente usati a favore di un elemento tradizionale. Così le antiche caste si sono trasformate in agenzie di impiego e organi di pressione socio-politica. Se un tempo tra esse vi era una sorta di equilibrio basato sull’interdipendenza, oggi sono in aperta competizione e si arriva al caso paradossale ove le caste dominate riescono a conseguire più privilegi delle dominanti, usando le rappresentanze democratiche. In un’India sempre conservativa nell’orientamento politico, le caste servono anche per accomodare gruppi con interessi rivali, evitando rivoluzioni e contenendo le esplosioni di violenza.
Nel complesso panorama sociale s’inserisce pure il movimento dei tribali, che esplicitano la loro insoddisfazione sociale con conversioni a diverse confessioni religiose o adeguamenti alle modalità di vita delle caste hindu. 11
Il singolo è disorientato e il disorientamento si fa rabbia che esplode a più livelli, alimentata da conflitti di valori e da tendenze schizzoidi. Le classi più colpite sono la borghesia e il proletariato urbano. Nella transizione da un modello all’altro, nella mistura di vecchio e nuovo, le convinzioni e i valori passano attraverso la fissione, la società si disgrega e si disordina. Rifiutati o svalutati i freni inibitori di un tempo, l’individuo che ha alle spalle poca pratica nell’esercizio della responsabilità civica fa ciò che vuole, senza tenere conto degli altri. La televisione e il cinema inneggiano ad eroi machi e ribelli che vogliono e ottengono tutto e subito.
Nel DNA della tradizione si innesta l’ingegneria genetica della modernità. La nuova tecnologia determina nuove strutture sociali, i raffinati e complessi strumenti del progresso condizionano la psicologia di chi li usa e le innovazioni tecnologiche modificano la percezione del mondo, il comportamento e il pensiero. L’innesto di modelli così diversi rende difficile la ricollocazione in una società nuova, dove a volte solo la superficie è mutata, non il fondo. Anche presso i gruppi più intellettuali e aperti l’occidentalizzazione è riferita solo all’ambito esterno del lavoro: nella sfera privata è ancora la tradizione e il conservatorismo che imperano.
Gli individui davvero consapevoli, autonomi e responsabili sono coloro che hanno realizzato il processo di individuazione, che sanno cioè chi sono, dove si trovano e cosa vogliono. La formazione della consapevolezza è stata da sempre uno degli obiettivi primari che la cultura indiana si è riproposta e molteplici sono state le indicazioni di percorso per il consolidamento dell’equilibrio e la realizzazione interiore: l’azione compiuta con distacco; il richiamo allo svadharma, la missione che ciascuno è chiamato a svolgere nella vita in rapporto alla propria natura e che supera il generico dharma; la disciplina ascetica che non è sterile mortificazione, ma espansione dei propri limiti; la purificazione mentale, l’introspezione e il silenzio; la trasformazione totale di sé che porta a realizzare il Divino che è in ciascuno. Ma tali percorsi conducevano a dissociarsi dalla società, in quanto il fine ultimo era l’affrancamento dalla vita mondana e non la sua modificazione: la società andava bene come era ed ogni cambiamento era visto come disordine e alterazione12. Come dunque generare interne motivazioni al cambiamento, se è considerato negativamente? Come coniugare la realtà empirica del quotidiano e la realtà trascendente dell’ideale? Una sfida difficile, ma l’India ha da sempre avuto un’incredibile capacità di assimilare il diverso e riadattarlo in un più ampio sistema. Il prezzo a livello dell’individuo, però, è davvero alto. Lo spiega magistralmente in un suo articolo su “Quest” il prof. Ayyub13:
“L’intellettuale indiano si trova in una situazione unica, che la sua controparte occidentale non deve fronteggiare. L’intellettuale occidentale è immerso in correnti e controcorrenti di idee, attitudini, norme e istituzioni scaturite e nutrite in un lungo passato storico, un passato a cui appartiene. Qualunque cosa scelga non deve strapparsi da nulla, non deve tagliare alcun cordone ombelicale. Questo è invece quello a cui deve sottoporsi la mente di un intellettuale indiano. E’ nato e cresciuto in una cultura che ritiene e sente come sua. Adesso sente che questa cultura non è più totalmente vitale; ha stagnato per molti secoli. D’altra parte l’intellettuale indiano si sente potentemente attratto da una grande e virile cultura che appare essere di più che la sola cultura occidentale moderna; essa lo sfida come la futura cultura del mondo. Egli sente l’attrazione di entrambe, una quella a cui appartiene, ma il cui sangue vitale sembra a lui avere esaurito il suo corso, l’altra molto più vitale e in crescita, ma aliena a lui. Di base la cultura dell’antica India e la cultura del moderno Occidente stanno opposte una all’altra. L’indiano intellettuale è lacerato fra le due. Comprende che non può resistere a lungo al fascino e al potere dell’Occidente e tuttavia tale sentire è percepito come un tradimento, una sorta di matricidio spirituale”.
Marilia Albanese
Bibliografia
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COLLOTTI PISCHEL E. (a cura di): L’India, oggi: lo sviluppo come speranza e come dramma, Milano 1984, ed. Franco Angeli
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FILORAMO G. a cura di: Hinduismo, Roma/Bari 2002, ed. Laterza
KAKAR Sudhir & POGGENDORF KAKAR Katharina, Gli Indiani, ritratto di un popolo, Vicenza 2007, ed Neri Pozza
LANNOY R.: The speaking tree, Oxford University Press 1071, New Delhi 1999
TULLY M.: Sabarmati Express, Milano 2006, Sartorio Editore
WOLPERT S.: Storia dell’India,dalle origini della cultura dell’Indo alla storia di oggi, Milano 1985, ed. Bompiani
NOTE
[1] Fin dall’antichità la ricerca indiana nei meandri profondi della psiche aveva evidenziato che il vissuto del singolo essere umano non è costituito solo dalle esperienze maturate dal momento del concepimento fino all’istante presente, ma da un insieme di impressioni accumulate nelle vite precedenti. L’agire ne risulta fortemente condizionato e a livello inconscio operano due potenti fattori: le vāsanā e i saṁskāra. Le prime, il cui termine significa “sentore”, sono memorie subliminali, engrafie esperienziali che permangono anche se le cause che le hanno innescate sono ormai scomparse da tempo, proprio come un’ampolla di profumo o una giara di spezie conservano il sentore del loro contenuto anche quando questo non vi è più. Queste latenze karmiche inducono a reazioni e atteggiamenti che tendono a ripetersi, creando i saṁskāra, “concrezioni” o stratificazioni comportamentali che determinano il carattere.
[2] Vedi il caso di Zakhir Hussein e Deepa Mehta, il primo violentemente contestato per i suoi dipinti dissacranti, la seconda addirittura minacciata di morte per i suoi film di denuncia contro le aberrazioni e le ingiustizie sociali, come la condizione della vedova.
[3] La prima codificazione del sistema castale si trova nel 90° inno del X libro del primo “Veda”, il “Ṛgveda”, raccolta poetica di invocazioni da rivolgere agli dei durante la celebrazione dei riti, già compilata oralmente attorno al 1500 a.C. dai veggenti e considerata rivelazione sacra. Nell’inno denominato “Puruṣasukta” si narra di come l’universo sia stato originato dal sacrificio di un mitico gigante, il Puruṣa, dalle cui membra immolate dagli dei hanno avuto origine gli elementi costitutivi dell’essere, caste incluse: dalla bocca sono nati i brāhmaṇa, i brahmani depositari della conoscenza sacra; dalle braccia gli kṣatriya, i guerrieri detentori del potere politico; dalle cosce i vaśya, addetti al sostentamento ed al commercio; dai piedi gli śūdra, votati al servizio delle altre caste. Queste quattro caste di fatto si segmentarono localmente ed oggi si contano circa tremila derivazioni, le jāti, che comunque si rifanno ad uno dei quattro livelli sopra citati. Vanno aggiunti al panorama sociale i fuori casta e i tribali.
[4] Anticamente il prestito e l’usura venivano esercitati dai commercianti.
[5] Classico esempio bahu, usato per la sposa e caci, caca, “zia”, “zio” che viene impiegato anche per le guide turistiche straniere.
[6] Secondo l’āśramavarṇa, l’uomo attraversava quattro stadi esistenziali: da fanciullo e adolescente, come brahmacārin, si formava sotto la guida di un maestro spirituale, guru, attraverso lo studio e la castità; quindi entrava ufficialmente nella comunità con il matrimonio e assumeva le funzioni di gṛhastha, “padrone di casa” marito e padre, occupandosi del proprio benessere e di quello della famiglia; una volta diventato nonno di un nipote maschio si ritirava dalla conduzione delle attività e dal nucleo familiare e si isolava in raccoglimento come vānaprastha, “eremita”; nel quarto ed ultimo stadio si preparava ad abbandonare l’esistenza e, diventato “asceta itinerante” o saṁnyāsin, viveva di elemosine, privo di qualsiasi interesse e attaccamento mondano.
[7] Aristocrazia guerriera conservatrice stanziata nell’odierno stato del Rajasthan.
[8] Vedi Sudhir Kakar, Sesso e amore in India, Parma 1995, Pratiche Editrice.
[9] Hinduismo, Islam, Cristianesimo, Jainismo, Sikhismo e inoltre animismo, minoranze buddhiste, parsi ed ebree.
[10] Vedi la negazione del diritto alle quote riservate, previste per i gruppi disagiati nell’ambito dell’educazione e dell’impiego pubblico, ai convertiti all’Islam e al Cristianesimo.
[11] Tale processo, noto come sanscritizzazione, consiste nell’assumere l’osservanza di regole restrittive come l’astensione dalla carne e da determinate professioni e la proibizione per le vedove di risposarsi. Ciò porta nel corso del tempo ad una più alta ricollocazione sociale del gruppo.
[12] Sarà Guru Nanak, il fondatore della corrente religiosa dei Sikh, il primo “riformatore” sociale: rinnegando il sistema delle caste, invitò i propri seguaci a vivere nella società per mutarla in ossequio alle proprie convinzioni spirituali.
[13] Tratto da “The speaking tree” di Richard Lannoy, Oxford University Press 1971, New Delhi 1999, pp. 417
Edizione originale: Marilia Albanese, L’uomo indiano tra gerarchia e individualismo, Quaderni Asiatici 78, Giugno 2007 (atti del convegno Is.I.A.O. “Per conoscere gli altri. Al confine tra oriente e occidente: relazione e conflitto” 2 dicembre 2006 presso la Casa della Cultura-Milano) http://www.italia-asia.it/quaderni/quaderni-asiatici-n-78