Può un dolore essere delicato? Può esserlo, quando finalmente riesci a contenerlo, come in una zona protetta. Lo yoga mi ha permesso un po’ alla volta di affrontare il dolore e non farlo deflagrare più, come mi accadeva all’inizio, ed ero inconsolabile. Oggi mi chiedo come sia stato possibile aver avuto così a lungo nella mia vita una persona che non mi voleva nella sua. “Ti voglio un fracco di bene, non voglio perderti”, mi diceva. Riusciva a non farmi vedere la violenza dei fatti, con le sue parole sempre educate, calme, gentili. Anche quando capiva che per incontrarlo io non vivevo più. In ogni momento avrei potuto sottrarmi e non l’ho fatto, lo adoravo, e ancora oggi se penso a lui mi commuovo senza fine. La sciagura è che ci sono stati moltissimi momenti meravigliosi, che mi inducevano a pensare che ci saremmo stati sempre l’uno per l’altra, e che non esistono amori perfetti, andava bene così.
Non racconto volentieri questa storia che mi ha lasciato un enorme vuoto, ne sono stata anch’io responsabile. Sembrava che ci pensasse lui a me, e invece, avrei dovuto farlo io, cosa che ho fatto ma solo quando è diventata inevitabile, ed è stata un disastro. Lo yoga è da sempre per me un “appoggio”, e lo è stato anche stavolta, nonostante la frustrazione, quando sentivo che il dolore del cuore si era diramato nelle articolazioni e ovunque nel corpo. Non volevo muovermi più. Lo yoga mi sembrava ostile in quei momenti, perché mi costringeva a distendere, aprire, respirare, mettermi in posizioni per farmi dire tutt’altro rispetto alla paura che stavo vivendo, quando mi sentivo perduta.
Mi accorgo che “Perdersi” è il titolo che usa Annie Ernaux in modo opposto, per raccontare una passione senza futuro, lo stato di chi dipende da una passione totalizzante ma clandestina. Invece, yoga è “svatantrata”, che io traduco come la “qualità di tessere la propria tela”, cioè autonomia. Nel dolore, lo yoga è rimasto lì, a farmi da guardia: non un’entità astratta, né un rifugio, ma un guardiano. Provando a vincere l’immobilità, mi giungevano dalle posizioni yoga dei ricordi buoni. Non ho mai capito perché tutte le volte in India l’insegnante di yoga ci chiedesse invariabilmente “How are you?”, a ciascuno di noi, un rito che occupava un bel po’ di spazio nella pratica quotidiana tra domande e risposte. Ora, pure a distanza di anni, ogni volta che sono su un tappetino mi sembra di udire ancora quella domanda “How are you?”, e quel ricordo mi dona un sorriso. Così come ricordo dal passato le maestre che mi hanno invitato a riconoscere i condizionamenti, e a interrogarmi sulle mie azioni, senza essere troppo dura con me stessa. La vicinanza delle persone che mi hanno trasferito gli insegnamenti dello yoga l’ho sentita molto forte, quando ne avevo più bisogno. Molto strano se ci penso, perché lo yoga è tradizionalmente ascetismo, solitudine, anche “smantellamento”, invece per me ha una forza comunitaria, affettiva – che a ben vedere si trova (con nome diverso) anche nella tradizione come “lignaggi” (scuole): sono molto importanti perché fondati sull’indicibile esperienza di generazioni e indicano una direzione.
“Amore” è una parola a cui diamo un sacco di significati. Dante ebbe l’idea di scrivere “a nullo amato amar perdona”. Altrimenti non è amore, andrebbe chiamato con un altro nome, forse adorazione. “Non era giusto” è il commento di una mia amica. Le dico che è come un lutto, è stata dura ma ho ripreso a vivere. In realtà, alla mia amica vorrei dire che la giustizia non c’entrava proprio nulla con questo amore, che ho capito quanto fosse fragile un legame che per me era tutto e che, invece, era inconsistente agli occhi di tutti. Non avevo stipulato nessun contratto con il mio “amore” e, perciò, oggi di quell’amore non è rimasto nulla se non un ricordo ridicolo di me, che chissà che cosa si credeva.
Oggi mi dispiace per il male che ho cercato di fargli io, in preda al dolore di averlo perso. Solo oggi arrivo a capire come il dolore immenso che ho vissuto sia stata la conseguenza di tanti piccoli dolori iniziali che io avevo trascurato, come se avessi perso fiducia nella “verità” – che è stata la vera sventura, acquisire da chi non mi amava il disamore del mondo. Non penso che le cose che viviamo ci insegnino qualcosa, purtroppo, perché (grazie a dio) ogni situazione è diversa e viviamo sempre nuove vite, non sono più la persona di quattro o cinque anni fa. Però, da quest’esperienza posso dire che il dolore va riconosciuto alle prime avvisaglie, e tenuto a bada. Perché ci protegge (come ci disse qualcuno: “heyam dukham anagatam”).
G.