Il karmayoga della Bhagavadgītā

La “Bhagavadgītā”, il “Canto del Beato”, eccelsa opera della spiritualità hindu, si articola in diciotto capitoli inseriti nel VI libro del “Mahābhārata”, la grande epopea che vede incarnate sulla terra e antagoniste le forze positive dei deva, gli ‘dei’, e quelle negative degli āsura, i ‘demoni’, in quel tipico contesto escatologico caro al mondo indo-europeo.

Sono celebrati in essa gli assunti fondamentali del cosiddetto Hinduismo, complesso modo di essere strutturato in consuetudini religiose e sociali, la cui gamma di sfaccettature sfugge ad ogni definizione. Nel mondo hindu il Divino è immanente e trascendente, Īśvara o Brahman, cioè Persona suprema e Assoluto inqualificato, trentatré milioni di divinità o puro vuoto. L’universo è Sua proiezione, modificazione, riflesso, miraggio: è māyā e līlā, ‘illusione’ e ‘gioco’: e l’uomo, ora fittizio insieme di aggregati, ora interlocutore, compagno, amante di Dio, se ne dissocia o collabora alla sua trasmutazione.

Vi sono tuttavia alcuni elementi unificanti e uno di questi, ampiamente celebrato nella “Bhagavadgītā”, è il concetto di dharma, ‘norma’, ovvero aderenza di ogni essere e cosa alla propria natura più profonda, quell’es­senza e funzione che lo collocano armo­niosamente nel grandioso disegno dell’esistenza.  

A livello cosmico il dharma è la legge che regola l’universo e lo induce a manifestarsi e a scomparire periodicamente, in quella dimensione ciclica del tempo che è peculiare della cultura hindu; è sempre il dharma che fa emergere dalla notte cosmica tra un mondo dall’altro le potenze divine, i deva, gli dei ‘signori della luce’ e custodi dell’ordine universale.

Il karman, l’azione che è causa ed effetto al tempo stesso, genera il dispiegarsi dei fenomeni nel macrocosmo e innesca il cerchio delle nascite e delle morti nel microcosmo, ove l’esistenza presente degli individui, nutrita di desiderio e di nescienza, è condizionata dai vissuti passati e condiziona a sua volta la vita futura. Ciascuno, infatti, costruisce il proprio destino con le azioni compiute, sorta di semi piantati nel terreno fertile dell’esistenza, che germineranno in una pianta i cui frutti matureranno in una prossima rinascita: l’uomo, giardiniere di se stesso, li coglierà positivi o negativi, così come li ha seminati.

Le conseguenze morali dell’atto vincolano al saṃsāra, il doloroso ritorno all’esistenza: incatenato alla ruota del tempo, soggetto al dolore ed alla morte, l’essere umano trasmigra di vita in vita, sperimentando le innumerevoli possibilità dell’esistere come pianta, animale, uomo, demone, divinità.  Ciascuno va così a occupare nella collettività il posto che si è meritato con il suo agire pregresso, in una struttura gerarchica anch’essa controllata dal dharma.  

Se l’ambito sociale è regolato da un ordine costituito che non va mutato, ma conservato – il sistema delle caste -, nella dimensione personale l’individuo può costruirsi un futuro migliore. Accanto al dharma di casta, infatti, l’essere umano persegue un suo svadharma [1], un progetto interiore determinato dal suo sesso, dalla sua funzione, dalle sue inclinazioni. E’ proprio questo svadharma a favorire la libertà spirituale, a patto che l’uomo sia in grado di conoscere e di comprendere se stesso e di scegliere le modalità religiose, cioè di ‘collegamento’ fra la sfera profana e quella sacra, più consone al suo modo d’essere.

In un contesto simile il dogma come assunto indiscutibile ed esclusivo non trova posto e le differenti prospettive che caratterizzano le scuole filosofiche indiane [2] rispondono ad intenti più terapeutici che teoretici: l’esperienza resta il procedimento conoscitivo fondamentale e l’intuizione supera la conoscenza dottrinale e teologica. Il percorso logico e razionale rivela i suoi limiti e può scandagliare soltanto il manifesto: esaurita questa sua funzione racchiusa nelle coordinate di tempo e di spazio, l’intelletto si arrende al proprio limite e si fa passivo. E proprio in questa quiescenza, nell’umiltà e nel silenzio irrompe l’infinito, insorge la visione che permette di cogliere il totalmente Altro attraverso un ‘senso ulteriore’ che ingloba e trascende tutti gli strumenti di indagine usati fino a quel momento. Ed è questo il percorso attuato nella “Bhagavadgītā”.

Deviare dal dharma, coltivare la nescienza, intossicarsi di desiderio significa perdersi; la salvezza è aderenza alla regola che si manifesta nella via della ritualità, è discriminazione e retta visione che si attuano nella via della conoscenza, è devozione e amore che sollecitano la grazia salvifica nella via mistica [3].

L’anelito a trascendere il mondano per trovare dietro le caleidoscopiche trasmutazioni dell’universo il Principio eterno, onnipresente, é il tratto che accumuna le diverse scuole filosofiche e le differenti correnti religiose. La composizione corale delle innegabili dissonanze della cultura hindu é effettuata dalla tradizione, che nel corso dei secoli ha saputo confrontarsi con le tendenze più disparate, integrandone armonicamente le componenti più significative: una lenta evoluzione e ponderati compromessi le hanno permesso di adattarsi alle mutate esigenze storiche senza snaturarsi.

Di tale sforzo di assimilazione e rieditazione la “Bhagavadgītā” – più comunemente definita “Gītā” – è una delle testimonianze più significative. Di difficile definizione cronologica – sembrerebbe avere avuto la sua compilazione definitiva già nel II sec. a.C. –[4], la “Gītā” attua una rivisitazione teistica della grande tradizione precedente tramandata nelle “Upanișad”,  i testi più antichi di speculazione filosofica e introspezione psicologica ascritti fra l’VIII e il VI sec. a.C.: l’equazione metafisica che aveva portato alla convergenza di ātman, l’anima individuale, il Sé, e Brahman, l’Anima universale, l’Assoluto, viene reinterpretata come presenza di Dio nel sé dell’uomo quale antaryāmin, ‘guida interiore’.

Il Brahman, l’Assoluto, si fa Persona divina ed assume le spoglie di Kṛṣṇa, il principe di Dvārakā, saggio parente di entrambe le famiglie di contendenti, a cui ha offerto la scelta fra se stesso e il suo esercito. Inutile dire che i Pāṇḍava, gli eroi che incarnano i protettori del dharma, scelgono Kṛṣṇa mentre i Kaurava, intossicati dall’odio e dalla sete di potere, si appropriano del poderoso esercito del congiunto.

Il culto di Kṛṣṇa come Vasudeva è già attestato nel IV a.C. e il dio dall’incarnato scuro (Kṛṣṇa significa appunto ‘Nero’), perseguitato e costretto a nascondersi, che richiede ai fedeli il totale abbandono e il coraggio di rinunciare a tutto, diviene ben presto l’avatāra, ovvero la ‘discesa’, più importante del dio Viṣṇu, che a sua volta raffigura l’aspetto provvidenziale dell’Assoluto [5] . La dimensione oscura della figura di Kṛṣṇa rimanda ad un preciso contesto simbolico: il divino infante nasce nella parte più buia della notte, indicando così che la redenzione si fa strada nel cuore delle tenebre, condizione indispensabile perché la luce si possa manifestare. La rivelazione, come un lampo folgorante, sgorga dal grembo dell’oscurità: pertanto Kṛṣṇa, il ‘Nero’ e quindi l’immanifesto, è colui che svelerà all’eroe Arjuna, il ‘Bianco’ e quindi il manifesto, la via che collega i due livelli. Non a caso la funzione che Kṛṣṇa esplica è quella di conduttore del carro da guerra di Arjuna, cioè di Auriga nel senso più alto del termine: colui che guida.

E’ proprio con la “Bhagavadgītā” che la mistica dell’avatāra diviene centrale nel percorso devozionale hindu: l’avatāra rappresenta l’intima essenza divina inscritta nell’uomo, la sua possibilità di perfezione e trascendimento, il paradigma da realizzare. Mentre Dio ‘discende’ fra gli uomini, l’uomo ascende a Lui, in un movimento sinergico che risignifica il rapporto fra i due, la loro ‘unione’, yoga [6].

La Presenza divina nell’uomo è ribadita nella “Bhagavadgītā” dalla temperie nella quale si colloca il colloquio fra Kṛṣṇa e Arjuna. Il guerriero, prostrato dallo scoramento nel vedere schierati nelle file avverse parenti e amici, si accascia nel carro da guerra incapace di combattere; il carro rappresenta il corpo in quanto entità psicofisica, i cavalli simboleggiano i sensi, le redini la mente che li coordina e il guidatore l’intelletto che tutto sovraintende mentre il passeggero, l’ātman, siede immoto ed impassibile. L’abitacolo del carro ove avviene il dialogo fra Arjuna e Kṛṣṇa diviene dunque la cavità del cuore, nella quale l’antaryāmin, il Divino che abita la coscienza, si manifesta come voce interiore nel momento della prova.

Tra gli innumerevoli conflitti che si è chiamati ad affrontare nella quotidianità, uno finisce per scatenare la crisi: delle tante battaglie intraprese da Arjuna, paradigma dell’uomo giusto, questa del Kurukṣetra, il ‘campo dei Kuru’ simbolo del mondo interiore, lo sconvolge e gli appare incombattibile. Contro consanguinei e amici si rifiuta di compiere il dovere del guerriero: l’enormità dell’evento che lo colpisce nel profondo della sua emotività gli rivela tragicamente l’ingiustizia del mondo e della condizione umana.

La sventura che si abbatte senza apparente motivo sull’innocente grida scandalo nella coscienza e l’incapacità di vedere nella crisi l’opportunità offerta per una diversa lettura del dolore ingenera rancore, disperazione, ribellione contro il disegno del destino incomprensibile e crudele. Millenni fa come oggi, l’uomo smarrisce se stesso.

Di fronte alla grande prova il guerriero Arjuna si rifiuta di affrontarla, mette in dubbio il proprio ruolo sociale, quello di combattente, optando per la rinuncia al conflitto e interrogandosi se addirittura non sia auspicabile la condizione dell’asceta. Mettersi in disparte, negarsi allo scontro, bramare il ritiro dal mondo sono le reazioni emotive immediate che la psiche pone in atto per difendersi da una situazione dolorosa.

La paura della sofferenza e delle lacerazioni interiori impedisce di scorgere l’enorme potere catartico rappresentato dal dolore che, se vissuto attivamente, può trasformarsi in mezzo di espansione spirituale. La capacità di comprendere nella propria sofferenza quella degli altri, in un processo di ‘simpatia’ vissuto nella carne e nello spirito, salva dall’acredine e dall’inaridimento mentre l’accettare la prova quasi fosse un’espiazione delle mancanze commesse nell’arco della propria vita anche dal più probo, significa ribaltare la condizione di vittima passiva in quella di protagonista attivo del più grande mistero dell’esistenza: il dolore.

Ma Arjuna non è ancora pronto a percepire l’evento tragico in questi termini: abiura il suo essere guerriero e così si trova ad affrontare il confronto con se stesso, con quello che è in essenza, aldilà di ogni qualifica e funzione. In questo doloroso stadio di passaggio ove grandissimo è il pericolo di smarrirsi, Kṛṣṇa parla nel suo cuore. Nel momento dello sconforto, quando il dolore rende umili e disarmati, mette a nudo l’anima e dà la misura del bisogno dell’aiuto spirituale, irrompe la rivelazione.

Il Divino si manifesta e svela il suo volto a chi è in ambasce e implora soccorso: la conoscenza non si persegue con il mero esercizio intellettuale, ma con l’aspirare a essa dal profondo del cuore. Proprio quando la pochezza umana si fa insopportabile e l’evidenza dell’abissale ignoranza che domina la mente non lascia altra alternativa che la preghiera, ecco che la parola sacra risuona nella coscienza e conduce a ‘ricordarsi di sé’, a ritrovarsi e a ritornare a Dio, fonte immutabile del movimento senza fine dell’esistenza.

Questa è il dominio di māyā, ‘potere di misurazione’ che fissa nel tempo e nello spazio i limiti del finito, che scandisce il ritmo incessante dei fenomeni e scherma la Luce primigenia. E quando questo mondo relativo è percepito come assoluto, come l’unico possibile, māyā diviene ‘illusione’, concezione erronea e inconsistente dell’essere. Tuttavia proprio il mondo, benché privo di perfezione, costituisce il banco di prova delle capacità di elevazioni umane e si trasforma nel campo di battaglia ove annientare ciò che ostacola il ricongiungimento con il Divino. Il male è infatti ‘separazione’ dal Principio e ‘ostacolo’ ai Suoi disegni, ‘diavolo’ e ‘satana’ nell’accezione etimologica dei termini.

Con quei rimandi paradossali tipici del linguaggio simbolico, proprio nel processo di ‘misurazione’ è adombrato il cammino che l’essere umano deve seguire: come Dio si è dato una misura, autolimitandosi nelle forme dell’essere per rendersi accessibile all’uomo, ugualmente questi deve ispirare il proprio comportamento al sacrificio e alla disciplina. Nel porsi il limite, inteso qui come regola da osservare e non come carenza da superare, avviene l’incontro fra l’uomo e Dio.

Quando il male di vivere diviene insopportabile e il significato dell’esistere appare incomprensibile, la fede induce a cercare in fondo al cuore una risposta: e qui, nell’intima cavità dell’essere umano, l’illusione, l’ignoranza e la relatività che velano l’Assoluto si dissolvono. Il Brahman  si rapporta all’uomo ed assume le vesti di Īśvara, la Persona divina che riunisce e trascende essere e non essere, immutabilità e divenire, spirito e materia.

Arjuna implora l’aiuto di Kṛṣṇa perché gli restituisca il senso degli eventi; è nella propria coscienza che il guerriero guarda e in essa ricupera la presenza amorevole di Dio,  il cui palesarsi scioglie lo spazio nell’infinito e trasfigura il tempo nell’eternità. Kṛṣṇa gli si rivelerà nel momento culminante del poema, l’undicesimo capitolo,  come il Supremo e la tremenda visione condurrà Arjuna sull’orlo del delirio.

Ma molte e progressive sono le tappe prima di giungere alla teofania. Kṛṣṇa, in un inizio potentemente psicologico, scuote il suo protetto rammentandogli che un guerriero non può esimersi dal combattere, pena il biasimo e il disonore su di lui e la sua stirpe. Il ruolo che Arjuna riveste in quel momento e il dovere che è chiamato a compiere in quanto kṣatriya, appartenente alla seconda casta, quella dei guerrieri, sono il frutto di un lungo percorso esistenziale dipanatosi nell’arco di svariate esistenze, ove le azioni commesse allora hanno determinato gli eventi presenti.

La terribile missione dello kṣatriya è utilizzare la violenza e dispensare la morte, all’interno di un disegno imperscrutabile, ove le forze polari sono indispensabili al gioco dell’esistenza. Il dinamismo, condizione vitale, presuppone lo scontro fra positivo e negativo, bene e male, e il guerriero ne è lo strumento fondamentale.

Lo stesso Gandhi, che ispirò l’intero suo operato all’ahiṁsā, la “non-violenza” o, meglio ancora, la “in-nocenza”, afferma nel suo commento alla “Gītā” [7] che la violenza è inevitabile e che il male è parte integrante dell’azione.  E se a meritare la morte sono i parenti, essa va dispensata anche a loro, poiché l’aderenza al vero non ammette deroghe: il male si è incarnato nei Kaurava ed è dunque dovere di Arjuna estirparlo.

Inoltre, puntualizza Radhakrishnan nella sua splendida interpretazione [8], l’avversione alla violenza dimostrata da Arjuna non è scelta interiormente maturata, ma egoistica paura di soffrire nel dovere uccidere persone care.

I “congiunti”, quelli che Arjuna chiama “la mia gente”, a una lettura simbolica risultano essere la somma delle convenzioni che nutrono gli atteggiamenti mentali e comportamentali, quei costrutti psichici che costituiscono l’io fittizio, pertanto estremamente cari e strenuamente difesi. Arjuna dovrà liberarsene, se vorrà perseguire il cammino che conduce alla ricerca del sé più profondo e all’incontro con il Divino.

La guerra, “porta del cielo per i guerrieri”, è il luogo sacrificale per eccellenza: l’accettazione del mistero del dolore e della morte violenta, il combattimento eseguito per spirito di dovere e di servizio in ossequio al dharma, la capacità suprema di annullare l’io, la propria individualità che grida e si ribella di fronte al sangue, la purificazione della mente spogliata da tutti i condizionamenti individuali, dalle convenzioni rassicuranti, perfino dai dettami della tradizione, sono quegli atteggiamenti interiori salvifici che riscattano l’orrore della  battaglia e la trasformano in un rito.

Viene alla mente la figura del monaco-cavaliere medioevale, votato alla difesa della fede, interiormente inerme in quanto uomo di Dio, ma maestro d’armi e dispensatore di morte, perché chiamato ad essere strumento di una volontà più alta. Paradigma ideale di come rapportarsi all’imperscrutabile necessità della violenza, quasi mai esso fu realizzato dai vari ordini di cavalieri nella storia umana, incapaci di leggere dietro alla cruda concretezza del termine ‘guerra’ un rimando simbolico alla battaglia interiore.

Nelle ‘guerre sante’ il nemico è dentro ciascuno, parte recondita del proprio essere da portare alla luce e combattere faccia a faccia. Su ben altro piano si collocano dunque conflitto e vittoria e la risignificazione della guerra, che è forse uno dei punti più forti, difficili e ambigui della “Gītā”, vede nei Pāṇḍava e nei Kaurava gli aspetti polari dell’uomo e nel Kurukṣetra, luogo dello scontro, la sua coscienza.

Arjuna è chiamato pertanto a restare sul campo e a combattere; la rinuncia alle armi, in questo caso, sarebbe soltanto una fuga. Kṛṣṇa lo conforta conducendolo progressivamente a vedere dietro la realtà mutevole fatta di divenire e morte – in quel caso specifico l’uccisione dei congiunti – la vera Realtà eterna: māyā induce l’uomo a credere di potere uccidere ed essere ucciso, facendogli dimenticare che l’ātman, l’anima, è eterna. Ciò che il guerriero scorge con la sua ottica ancora limitata è la maschera del transeunte sul volto dell’eterno e dietro i limiti finiti del campo di battaglia non riesce a intravvedere l’infinito.

Accecato dalla propria individualità ferita, Arjuna tende a dare valore assoluto al proprio sentire ed agire umano, ma ben più ampio è il contesto in cui si inscrivono le vite degli esseri. E’ l’azione, innescata dal desiderio basato sull’ignoranza, che domina il meccanismo dell’esistenza: lo stesso Dio, nell’espletare le funzioni di emanazione, conservazione e dissoluzione dell’universo, si adegua alla necessità dell’agire.

Non è però con l’inazione che si arresta il divenire doloroso, ma con l’azione risignificata; non è il ‘non’ fare, ma il ‘come’ fare che cambia qualitativamente l’esistenza. Agire perché si deve, perché è retaggio del proprio karman, perché è purificazione; agire senza attendersi nulla, in sereno distacco, liberi da volontà egoiche,  in un fare simpatetico con il Tutto. Il niṣkāma karman, l’atto compiuto senza kāma, bramosia, attaccamento, aspettativa, è ispirato unicamente al dharma, a ciò che deve essere fatto, perché il disegno provvidenziale possa realizzarsi nell’universo.

E se troppo arduo è spogliarsi di ogni attesa, che si compia ciò che si deve dedicando al Signore quelle azioni che il cuore non riesce a vivere come distaccate. La trasformazione spirituale si realizza dando un senso ulteriore all’agire e facendo la volontà divina in misura dei propri talenti, con le opere, l’intelletto, il cuore, seguendo l’inclinazione attiva, riflessiva o emotiva, a seconda delle peculiarità di ciascuno che comunque, in quanto uomo, è sempre essere multidimensionale.

Kṛṣṇa indica le tappe della risignificazione, iniziando con la condanna dell’atto egoista, basato esclusivamente sui propri impulsi, e invitando quindi ad una nuova interpretazione dell’atto liturgico tanto celebrato nei “Veda” [9]. Il rito riscatta l’agire umano dalle motivazioni egoistiche e gli restituisce la sua dimensione religiosa poiché è, da un lato, ‘collegamento’ con tutte le forme d’essere, e dall’altro raccordo con il  sacro che sottende il profano. Il sacrificio è il sostegno del mondo, la garanzia dell’ordinato svolgersi dell’esistenza, l’operare corale che rende coscienti degli altri e della natura.  Ma quando la sua esecuzione è finalizzata all’ottenimento di benefici e poteri o è compiuta in supino ossequio a una tradizione che non è più interiormente vissuta, ma solo convenzionalmente accettata, allora il rito perde il suo spessore, diviene fine a se stesso e non è più strumento di elevazione.

Anche le operazioni liturgiche vanno effettuate in maniera distaccata, partecipando pienamente all’atto in sé, ma astenendosi da qualsiasi tipo di coinvolgimento per quanto riguarda i frutti. L’azione egoistica si disciplina così nell’azione rituale, la quale si purifica da ogni componente personale perché compiuta senza attaccamento.

Come ultima tappa della trasformazione operata sulle azioni, l’atto distaccato si sublima nell’offrirsi integralmente e incondizionatamente al Divino. Kṛṣṇa insegna ad Arjuna che dedicandosi a Dio si coltiva il distacco e liberandosi dall’attaccamento si trova Dio, in un progressivo percorso di elevazione basato sullo yoga.

 Lo yoga, con il soggiogare i sensi ed imbrigliare le energie per combattere i condizionamenti dell’ego e realizzare la persona trascendente che è in ciascuno, diviene strumento ottimale nei diversi livelli d’espressione umana: il karmayoga sostiene il compimento disinteressato dell’azione qualunque essa sia, in una dimensione liturgica del fare quotidiano trasformato in rito; lo jñānayoga propone la via della conoscenza di sé che conduce all’apprensione della Realtà suprema; il bhaktiyoga sancisce l’abbandono totale a Dio e nella “Bhagavadgītā” viene privilegiato rispetto agli altri quale mezzo di attuazione dell’unione mistica tra l’anima e il suo Signore. Una ‘unione’, yoga, ottenuta vuoi con la prapatti, l’oblazione fiduciosa e passiva in attesa della grazia salvifica, vuoi con la bhakti, devozione amorosa attiva che conduce verso il Divino e Lo induce a muoversi verso l’uomo.

“Abbandonando a me le tue opere, la mente fissa in me, combatti”, esorta Kṛṣṇa a più riprese. Solo così l’agire umano si fa agire divino; annullata la propria individualità, il devoto legge in ogni evento il volere di Dio e realizza la perfetta condizione di oblazione.

L’uomo che Kṛṣṇa vuole riforgiare in Arjuna segue l’aurea via di mezzo fra colui che è coinvolto nel mondano e ne resta intossicato e colui che si è ritirato nel silenzio dell’Assoluto, illudendosi di potere ignorare il rumore della vita. La liberazione non si ottiene isolando lo spirito dal mondo, ma spiritualizzando il mondo. L’esistenza è data all’uomo perché egli la possa trasfigurare, libero da necessità e ignoranza, scoprendo nella realtà quotidiana il disegno e la presenza di Dio, e quindi capace di risignificare ogni atto ispirandosi alla voce interiore.

La trasformazione del mondo è affidata alla trasformazione del singolo, alla responsabilità individuale che non cerca alibi nelle istituzioni e non può ritenersi assolta per i fallimenti collettivi. La “Gītā” è sì “Brahmavidyā”, la conoscenza dell’Assoluto, ma è anche “Yogaśāstra”, la disciplina pratica dell’unione. Il sapere si fa comprensione e la conoscenza si fa illuminazione.

Il “Canto del Beato” si chiude con la perentoria chiamata a vivere nel mondo come guerrieri temprati dalla disciplina, la mente purificata e il cuore dedito a Dio. Soggiogati con il distacco i sensi, porte del desiderio e dell’ignoranza, risignificato con la bhakti  l’agire, l’uomo vive in Dio e Dio vive nell’uomo; e questa unione, yoga, è quello che dà senso alla vita.

Moltissime le interpretazioni del messaggio della “Gītā”: pensatori di opposte posizioni l’hanno ugualmente chiamata in causa per sostenere i loro assunti e il loro agire. Il Mahatma Gandhi si è ispirato a essa per promuovere l’etica del servizio, che vede il lavoro come un sacrificio, svuotato di ogni interesse personale e compiuto esclusivamente con spirito altruistico. Eppure, sempre attingendo alla stessa fonte, grandi estremisti politici come il leader Chandra Bose lessero nei versi della “Gītā” la legittimazione dell’uso della violenza. Addirittura, c’è chi giunge all’estremo: Vijay Kumar Thakur, che data la “Bhagavadgītā” al  III/IV sec. d.C. [10], rinnega in essa qualsiasi ispirazione sacra e la considera invece uno strumento ideologico di sfruttamento delle masse agricole. Il sistema feudale emergente avrebbe usato la teoria del karman per dominare il popolo, inculcando la convinzione che l’osservanza cieca alle regole castali avrebbe garantito una rinascita migliore. Al tempo stesso avrebbe enfatizzato la bhakti come totale e supino abbandono, così da ispirare a essa il legame dei  feudatari con il re, che si sarebbero votati al sovrano anima e corpo, in una sottomissione  acritica e indiscussa.

E ancora, maestri contemporanei hanno differentemente interpretato l’invito all’azione disinteressata: Maharishi Mahesh Yogi, ad esempio, intende il niṣkāma karman non tanto come l’agire senza attendersi riscontri di alcun genere, bensì come dedicazione totale a quanto intrapreso, semplice o grandioso che sia, senza darsi parzialmente, con svogliatezza o poca consapevolezza, ma con pieno coinvolgimento  di se stessi. Non è necessario dunque ‘reprimere’ l’azione, ma renderla illuminata con l’elevarsi a un livello di coscienza divina. La rinuncia non è all’agire, ma alla relatività dei suoi frutti; la coscienza trascendentale conduce alla sintonia con Dio e a questo deve tendere lo sforzo dell’individuo per il quale, tra l’altro, il processo di unione con il Divino, che è un acquisire, è molto più gratificante che quello di votarsi alla rinuncia, che è un perdere.

Tagore, sensibilissimo interprete della tradizione hindu oltre che poeta ispirato, legge l’esortazione a rinunciare ai frutti dell’azione non come ammonimento a non godere dell’esistenza, ma come invito a viverla in ogni istante per quello che è, un dono di Dio e non un possesso personale, che va condiviso con gli altri. La dedicazione degli atti al Signore diviene dunque ‘restituzione’ e rendimento di grazia.

E’ presente nella lettura del poeta bengalese l’antico concetto di līlā, quel ‘gioco’ esistenziale che è pura gratuità, ove gioiosamente e libero da ogni necessità il Divino trabocca nelle forme dell’essere. L’uomo è invitato a partecipare alla līlā con spirito libero da attaccamento e spontaneità infantile [11] che anche il Vangelo auspica, quando ammonisce che non entrerà in cielo chi non sa farsi fanciullo.

A prescindere da qualsiasi contestualizzazione indiana, il karmayoga della “Gītā” costituisce un paradigma di vita per chiunque creda ad un disegno sacro e ad una presenza superiore nell’esistenza quotidiana e tenti di compiere il proprio dovere con consapevolezza e coscienza.

Benché costretti ad essere ‘guerrieri’, si può ispirare il proprio agire all’innocenza, quell’ahiṁsā, ‘non violenza’, che diviene la regola fondamentale per chi si rifiuta di seguire  la legge della jungla, ma tenta di realizzare un mondo ispirato alla compassione, alla solidarietà e all’amore.  Coltivare il rispetto per ogni forma di vita e lavorare contro la pulsione più pericolosa, l’aggressività, aiutano a sintonizzarsi con il ritmo profondo dell’universo, ove ogni cosa è strettamente collegata con le altre ed ha la sua dignità e il suo significato nell’imperscrutabile progetto cosmico.

La battaglia della “Gītā” può diventare l’andare controcorrente in un contesto come quello odierno, assatanato dall’avere: l’azione disinteressata si concretizza nel vivere senza bramosia di possesso, nella serena accettazione di quanto il quotidiano porta, in gioia e dolore. “Nel mondo, ma non del mondo”: un avvertimento che dalla “Gītā” giunge attraverso Tagore fino ai giorni nostri. Il poeta invita ad attraversare gli avvenimenti con la coscienza di essere in transito e che nulla veramente ci appartiene; ciò non significa la negazione a godere della vita, ma l’avviso a fruirne in maniera equilibrata, sapendo che comunque ci attende un’altra sponda e che il pensiero del distacco e della morte deve diventare familiare, senza angoscia o rifiuto.

La mente si abitua così all’equanimità che è la capacità di contentarsi nella buona e nella cattiva sorte, di accogliere tutto e tutti per quello che sono, leggendo nel mistero dell’esistenza il volere di Dio.

Nell’abbandono al Signore che il cantore della “Gītā” auspicava più di duemila anni fa, si può ancora cogliere l’invito a ricuperare il fondo sacro che, pur trascendendo il profano,  gli dà significato e che si esprime  nelle radici religiose di ogni cultura e nella necessità imprescindibile del rito. Qualunque sia il credo che anima gli uomini di fede, il percorso li accomuna: nella scoperta dell’immagine del Dio personale che sta dentro il cuore di ognuno, riflettendone il Sé segreto, l’uomo comprende ciò che può e deve realizzare.

Con il distogliersi dall’esterno per guardarsi dentro Arjuna si è salvato: crearsi oggi uno spazio di raccoglimento nella sempre più convulsa vita dei nostri tempi, imparare a dare priorità a quello che veramente ha valore, sapere dire di no a distrazioni inutili o nefande, significa ridare senso profondo e dignità all’essere uomini.

Così nel silenzio interiore la concentrazione insegna lo stare qui e adesso nelle cose, nelle persone, nei sentimenti: chiamati continuamente a rivestire ruoli differenti nel complesso gioco della vita, la dispersione mentale, l’incapacità di focalizzarsi, la mancanza di vera consapevolezza inquinano l’integrità della psiche. Il fare diventa una sfida di quantità, una corsa con il tempo; fermarsi e interrogarsi in un quotidiano esercizio di ritorno in sé, di concentrazione, è un valido tentativo di ecologia mentale.

E se l’applicazione sarà costante, il cuore diverrà più puro, la mente più limpida, e la concentrazione si farà contemplazione, uno sprazzo di luce interiore che illumina diversamente la vita. Quasi in un processo di anamnesi platonica, la lunga ricerca dentro di sé rivela il ricordo della obnubilata discendenza divina. E ci sarà un istante impagabile e indicibile di comprensione, un fremito ineffabile di gioia, una sensazione di solidarietà, la certezza che ci sia un senso nella ridda assurda degli eventi. Un presagio beato di liberazione che lo yoga  ha chiamato samādhi, ‘‘enstasi’.

Poi si ripiomba nella vita di tutti i giorni e si ricomincia il difficile pellegrinaggio fra la terra e il cielo, ma con una consapevolezza ed una speranza in più, perché nessuno sforzo va mai perduto. L’ha sostenuto Kṛṣṇa rispondendo all’ansiosa domanda di Arjuna in merito al destino di colui che, pur sforzandosi, non ha raggiunto la perfezione e l’ha ribadito Eckhart che dice: “Se il tuo fallire non riguarda l’intenzione, ma soltanto le tue possibilità, davanti a Dio tu hai fatto tutto quello che dovevi fare”.

 Marilia Albanese

Bibliografia introduttiva alla Bhagavadgītā

Bhagavadgītā, saggio introduttivo, commento e note di Sarvepalli Radhakrishnan , ed. Ubaldini, Roma 1964

Bhagavadgītā, a cura di Esnoul A. M., con una Nota sulla “Bhagavadgītā” di Piantelli M., ed. Adelphi, Milano 1976

Il canto del Beato (Bhagavadgītā), a cura di R. Gnoli, ed. UTET, Torino 1976

Bhagavadgītā, nuova traduzione e commento capitoli 1-6, a cura di Maharishi Mahesh Yogi, ed. Mediterranee, Roma 1981

Aurobindo Sri: Lo Yoga della Bhagavadgītā,  ed. Mediterranee, Roma 1990

Bhagavadgītā (Il canto del glorioso Signore), a cura di S. Piano, ed. S. Paolo, Cinisello Balsamo 1994

 Note

[1] Sva è particella riflessiva e svadharma significa dunque il ‘proprio dharma’

[2] Il termine darśana con il quale vengono definiti i sistemi filosofici tradizionali hindu significa ‘visione’ e per esteso ‘punto di vista’; tale denominazione evidenzia come ogni scuola tenti di rispondere ai grandi quesiti metafisici ed esistenziali ponendosi da diversa angolatura, evitando la pretesa assurda ed arrogante di essere l’unica a detenere la verità.

[3] Benché innumerevoli siano le vie che conducono alla liberazione, tante quante le infinite possibilità d’espressione e di ricerca dello spirito umano, tre sono quelle fondamentali: karmamārga, la via delle opere rituali, jñānamārga, la via della conoscenza, bhaktimārga, la via della devozione. Diverse e talvolta addirittura divergenti, conducono tutte alla stessa meta, la Verità ultima.

[4] La cronologia della “Bhagavadgītā” è controversa ed oscilla fra il II sec. a.C. e il II sec. d.C. Il commento più antico che ci è pervenuto è opera di Śaṇkara, il sommo maestro dell’Advaitavedānta, la scuola metafisica della “non dualità” che sostiene l’identità fra l’ātman, l’anima individuale, il Sé, e il Brahman, l’Anima universale, l’Assoluto)

[5] Il mistero del Dio unico che si riveste di forme infinite nel gioco cosmico dell’esistenza si traduce in una poliedricità di rappresentazioni che offrono ai devoti la possibilità di trovare il proprio personale referente del sacro. Al sommo della piramide gerarchica del complesso pantheon hindu si trovano gli dei Brahma, Viṣṇu e Śiva che costituiscono la Trimūrti, la “Triplice Forma” in cui sono simboleggiati gli aspetti fondamentali dell’attività divina nei confronti del cosmo. Brahma, infatti, é il dio dell’origine, colui che presiede all’emanazione dell’universo traendolo dal caos primigenio e strutturandolo nelle molteplici forme del mondo manifesto. Viṣṇu, il personaggio centrale della Trimūrti, é il signore della conservazione della vita e guida e protegge tutte le creature. Questa sua funzione provvidenziale é ribadita dalle numerose discese o avatāra, che vedono il dio agire nel consesso umano sotto varie spoglie per garantire il trionfo del bene. A Śiva, terza divinità della Trimūrti, é demandato il compito di concludere il ciclo dissolvendo il cosmo, e tale distruzione é l’indispensabile purificazione in vista di una nuova alba dell’essere poiché, nella visione tradizionale indiana del tempo circolare, emanazione, conservazione e dissoluzione dell’universo si alternano ad un periodo di stasi che prelude ad un altro sbocciare di mondi.

[6] Il termine yoga deriva dalla radice indoeuropea yuj, ‘soggiogare, unire’, a cui si ricollega anche la parola latina iugum, ‘giogo’. Ed è proprio la funzione di giogo quella che espleta lo yoga in quanto ‘soggiogamento e unione’: così come il giogo viene imposto agli animali per domarne la volontà contraria, le tecniche dello yoga si prefiggono il controllo di tutte quelle resistenze fisiche e psichiche dispersive che impediscono di concentrarsi sul fine prescelto. E di nuovo: come il giogo, dopo averli domati, induce gli animali a lavorare insieme e a unificare le loro forze per tracciare il solco, così lo yogin, soggiogati corpo e mente, unifica i suoi sforzi per realizzare la separazione dal mondo materiale e il riconoscimento del suo essere spirito.

[7] Vedi Gandhi commenta la Bhagavadgītā, ed. Mediterranee, Roma 1988

[8]  Vedi Bhagavadgītā, saggio introduttivo, commento e note di Sarvepalli Radhakrishnan, ed. Ubaldini, Roma 1964

[9] I Veda costituiscono il fondamento della scienza sacra hindu e si articolano in quattro testi, le cui parti più antiche risultano già composte nel II millennio a.C. Il primo, il Ṛgveda, è raccolta di inni poetici composti da veggenti ispirati in onore di forze divine; tema centrale il sacrificio e le azioni liturgiche ad esso connesse. Il secondo, il Sāmaveda, riprende gli inni del Ṛgveda con particolari indicazioni per la salmodia.Il terzo, lo Yajurveda, presenta una minuziosa descrizione del sacrificio mentre l’ultimo, l’Atharvaveda, è una raccolta di temi disparati, dalla liturgia alla speculazione filosofica, dalla magia al costume.

[10] Vedi “Social Roots of the Bhagavad-Gītā” in Indologica Taurinensia vol.X, ed. Jollygrafica, Torino 1982

[11] Anche il Vangelo ammonisce che non entrerà in cielo chi non sa farsi fanciullo.